Onorevole Fanfani la informo che sarò assassinato

da "I Siciliani", gennaio 1984

Centoquattro pallottole di mitra e sette di pistola; tante ne furono estratte dal corpo martoriato di Pasquale Almerico, sindaco di Camporeale, ucciso al centro del paese, una sera di Marzo dell'anno 1957. Venne assassinato come in un terrificante film western: l'uomo che cammina lungo la facciata delle case e improvvisamente alcuni uomini a cavallo che irrompono al galoppo con le armi in pugno, circondandolo. Trenta, quaranta secondi di fuoco, gli ultimi colpi su un povero corpo insanguinato che giace a terra, immobile, e tuttavia ancora disperatamente vivo. Un volume di fuoco sufficiente per sterminare quasi una compagnia di soldati. Questa la misura dell'odio politico contro un uomo onesto, incorruttibile, folle e coraggioso.
Pasquale Almerico, sindaco democristiano di Camporeale, sconosciuto eroe siciliano, morì alcuni giorni prima che io nascessi ed un legame impercettibile deve forse averci sempre legato se è vero che adesso, ventisei anni dopo, per chissà quale incredibile coincidenza mi ritrovo a dover scrivere di lui sentendolo tanto vicino. Senza averne mai sentito parlare prima, senza aver conosciuto niente della sua vita, del suo mondo, della sua morte. Senza averlo mai neanche immaginato nei miei pensieri.
Ora sono venuta a Camporeale, questo paese dallo splendido nome di battaglia e che è solo un minuscolo centro terremotato nel cuore della Sicilia, a scoprire il fantasma di Pasquale Almerico, questo piccolo democristiano impavido e temerario che sognava un diverso destino da siciliano, che sognava anche un grande ideale morale per il suo partito e che il suo partito mandò sordidamente, crudelmente a morire. Sono venuta a riscoprire la storia dell'uomo e poi quello che resta della sua memoria fra coloro (i suoi compagni, i suoi amici) che lo conobbero da vivo e fra quegli altri (gli uomini ancora giovani) che dovrebbero conservarne e certamente amarne la memoria.
Pasquale Almerico era il sindaco di Camporeale, un piccolo paese in provincia di Palermo quasi al confine con il territorio di Trapani. Democristiano per fede profonda e altrettanto profonda vocazione, era conosciuto per la sua notevole abilità oratoria, una istintiva capacità che aveva di commuovere e trascinare la folla, e soprattutto per la sua disponibilità a lottare per i deboli e gli indifesi. E poi adorava i bambini, era un maestro elementare che aveva identificato la sua vita con la mistica dell'insegnamento. Era sindaco da due anni, eletto plebiscitariamente, quando Vanni Sacco si presentò alla sezione democristiana di Camporeale per chiedere la tessera del partito. Disse che, insieme a lui, altri trecento individui chiedevano la tessera del partito. Vanni Sacco era il padrone mafioso del territorio: fino a quell'anno era stato liberale, poi aveva capito che il vecchio partito di destra non avrebbe più comandato in Sicilia e aveva sentito questa irreversibile attrazione per la DC. Pasquale Almerico era invece semplicemente un democristiano morale e respinse la richiesta di Vanni Sacco e dei suoi trecento accoliti. E da quel momento cominciò a morire. Come si possono gettare via trecento voti di preferenza in un piccolo territorio? E a un segretario provinciale, che deve amministrare fortuna e potenza del partito, cosa volete che importi della trasparenza dei voti o delle perplessità morali di uno sperduto sindaco di provincia, bravo, onesto, intemerato, ma probabilmente anche un po' stupido, e in ogni caso un po' folle, il quale infatti preferisce l'ideale al potere? Il potere, ecco quello che conta, al diavolo don Sturzo!
Rifiutato e respinto dal sindaco Pasquale Almerico, Vanni Sacco si rivolse a Palermo a riproporre la sua profferta di iscrizione al partito, trecento tessere sull'unghia, trecento voti sonanti! Giorno dopo giorno il sindaco Almerico continuò a morire! Forse egli già intuiva di andare incontro alla morte e tuttavia continuò ad andare in quella direzione. Peraltro egli forse non insegnava ogni giorno ai suoi ragazzi che un uomo è un uomo quando sa spendere perfettamente la sua vita, senza viltà e sottomissioni? Fin quando egli era segretario della sezione DC di Camporeale e sindaco del paese, Vanni Sacco e i suoi trecento mafiosi non sarebbero entrati nel partito: che si rivolgessero pure a Palermo! La capitale non sarebbe riuscita a espugnare Camporeale.
E cominciarono ad arrivare le prime minacce di morte, l'immagine del coraggio a quel punto cominciò a coincidere perfettamente con quella della follia. Anche gli amici più devoti cominciarono ad abbandonarlo, anche i galantuomini quando sentono l'imminenza del disastro, si ricordano di avere famiglia e cominciano affannosamente a cercare le uscite di sicurezza. Pasquale Almerico capì anche questo. Il suo andare a morire divenne una corsa.
Forse proprio per lasciare una traccia della sua vita, anzi una testimonianza che potesse servire agli altri, Pasquale Almerico scrisse una specie di memoriale che aveva anche lo spavaldo significato di un testamento morale, di un'ultima sfida, indirizzato al segretario regionale Gullotti. Ma a conoscenza di tutta la storia era pure uno dei cosiddetti giovani leoni della Dc palermitana del tempo, Giovanni Gioia, un uomo che sorrideva sempre a tutti e che sarebbe diventato deputato al Parlamento e ministro della Repubblica. Il segretario provinciale Gioia era un uomo di Fanfani in Sicilia, e Fanfani era il segretario nazionale del partito. E sapeva. Nel suo memoriale il sindaco Almerico spiegò come il partito, a Camporeale, stesse per essere conquistato dalla mafia e come lui corresse il rischio di essere ucciso da un giorno all'altro.
Nessuna risposta! Sottovalutato? Non creduto? Volutamente ignorato? Fatto sta che i massimi dirigenti del partito non diedero seguito alcuno alla lettura del manoscritto e che la sera del 25 marzo 1957 cinque persone a cavallo, con il volto travisato da pesanti cappucci neri, attesero che il sindaco Almerico uscisse per avviarsi verso la sezione del partito, per avventarglisi contro e trucidarlo a raffiche di mitra e revolverate. Anche nella scena finale la storia rispettò una specie di epica dello spettacolo. Non un semplice assassinio, ma quasi una battaglia fra l'uomo, inerme e circondato, e cinque cavalieri con la maschera nera. Cosi venivano trucidati un tempo i sovrani. Il piccolo democristiano impavido e onesto, convinto che l'insegnamento cristiano potesse significare anche la nuova morale politica della nazione, aveva chiesto aiuto al suo partito per impedire che questa morale politica potesse essere inquinata dalla violenza, e il suo partito aveva aspettato in silenzio che la violenza lo cancellasse dalla vita. Cosa è rimasto di lui a Camporeale?
Camminando per le strade di questa minuscola cittadina la prima impressione è che Camporeale abbia conservato di lui soltanto un ricordo lieve, nascosto adesso dietro gli sguardi enigmatici degli anziani e i discorsi naturalmente più distaccati dei più giovani. Quasi subito, infatti, mi rendo conto che coloro i quali lo hanno conosciuto direttamente non affrontano volentieri questa memoria, come se negli animi fosse rimasta un'ombra di paura. Invece, chi è nato dopo la sua morte, teme meno il contatto con l'immagine dell'uomo, come se essa fosse entrata oramai in una specie di mito e quindi in una irrealtà che, per esser tale, non può far paura ad alcuno. Ma solo perché appunto non è stata mai vera, e comunque non è più vera..
Giuseppe è un contadino, forse un artigiano, poco più di sessant'anni, dentro una giacca marrone non più tanto nuova e dietro una sciarpa indefinibilmente colorata. Sta uscendo dal tabaccaio con un pacchetto di sigarette in mano e si ferma un attimo sulla soglia per strappare il cellofan. Non mi vuole dire, nemmeno precisare la sua identità, il nome di Almerico provoca in lui un immediato irrigidimento.
«Almerico? Una storia vecchia, che ragione c'è di parlarne ancora?» Pausa. Fa un piccolo cenno per indicarmi, con la sigaretta appena accesa, un incrocio venti metri più avanti. «Lo hanno ucciso laggiù. Una cosa tragica. Storie di mafia...». Mi volta improvvisamente le spalle, e se ne va senza nemmeno salutare. Ha detto tre parole esemplari: «Storie di mafia!» una etichetta con la quale centinaia di altri anziani hanno probabilmente messo in archivio anche i loro sentimenti personali. Come dire, tradizionalmente: io non ho visto e non ho sentito! Capitolo chiuso, ricordi sotterrati, parole inutili.
Il tentativo con un altro gruppo di anziani, che fa capannello davanti ad uno dei bar del corso, ha infatti identico risultato. Tento persino un'astuzia dialettica, cioè cerco dapprima di stabilire un dialogo abbastanza generico su Camporeale ma, appena le mie domande concretizzano in mezzo a loro la figura del sindaco assassinato, gli sguardi si fanno vacui, le parole rade, I'atteggiamento vagamente ostile. Sembra quasi che io chieda di parlare di cose loro intime che non mi appartengono, cose disonorevoli di cui non vogliono parlare, né vogliono che altri ne parlino.
Ottengo quasi lo stesso effetto anche con uno dei parroci del paese, don Antonio Giardelli. Sta potando le viti in un suo piccolo orto alla periferia del paese, è piccolo di statura, ha pochi capelli bianchi e occhiali dalla montatura leggera in precario equilibrio sul naso. Un vecchio, sdrucito maglione nero da lavoro, con il collarino bianco, I'immagine dell'uomo è bella, chissà che questo almeno non abbia coraggio. Anche i pantaloni sono vecchi e neri, affondati in un paio di stivali scuri sporchi di fango. Più che prete si sente probabilmente contadino, nel senso antico del termine, lo si intuisce dall'amore, dalla partecipazione emotiva con cui mi descrive le caratteristiche dei campi, laggiù, nella pianura che si distende al di là delle ultime case del nuovo paese, costruito dopo il terremoto del 1968. Lo lascio parlare per un po' e ascolto. Vigneti, campi di cocomeri, grano. Ne parlerebbe per chissà quanto ancora se non riuscissi, dopo alcuni ingenui adescamenti dialettici, a spostare di colpo il corso della discussione; Don Antonio, perdoni, chi era Pasquale Almerico?
Don Antonio dapprima spalanca gli occhi come se non avesse capito bene il nome. Poi fa un sorriso. Ho anche l'impressione che abbia un lieve sbandamento. Tace, guarda l'erba, come se volesse ora perfettamente ricordare il volto del personaggio.
«Sì, conoscevo Almerico, prima che diventasse sindaco. Poi andai per qualche tempo a Roma. Seppi che lo avevano ucciso. Che posso dire, quindi, su di lui? Quello che fece, le persone che si inimicò, come fu eletto sindaco, chi erano le persone che lo volevano morto. Certo niente accade per niente nella vita!». si china a tagliare il tralcio di una vite, forse vorrebbe che il discorso si chiudesse così, ma capisce che un sant'uomo deve pur avere una sua opinione sul dolore degli altri, fa un sospiro e mi guarda in volto: «Era comunque un uomo onesto. In paese gli volevano tutti bene. Sempre a disposizione dei poveri e dei bisognosi. Ma era anche caparbio e un poco spavaldo. Poi si intestardì in quella faccenda, almeno così mi hanno raccontato, e finì in quel modo tragico. Era un uomo coraggioso e onesto, un poco testardo, pace all'anima sua!»
Il parroco fa un altro profondo sospiro, quasi per sottolineare la sua amarezza per le crudeltà della vita, e per spiegare che lui purtroppo non può provvedere, se non con messe cantate e salmi. Lo lascio in mezzo alle sue piante, in ginocchio in mezzo all'erba alta.
Calogero Zuppardo, architetto di una trentina d'anni, mi viene in aiuto: «C'è una sola persona che ti può parlare molto di Pasquale Almerico. Ti accompagno». E intanto me ne parla lui: «Qui in paese i vecchi vorrebbero parlarne bene, molti lo conobbero di persona, erano anche suoi amici, ma hanno ancora paura, e allora preferiscono tacere, fare finta di non ricordarsi più dell'uomo, né della sua storia. La paura, specie in un piccolo paese sperduto, è una cosa con cui bisogna convivere. Qui tutti dicono che la mafia oramai è lontana, ma è più un tentativo patetico di volersi convincere. Il fatto è che tutti sanno che la mafia ha soltanto cambiato volto. L'incappucciato di nero e la lupara hanno oramai sapore di leggenda, ma l'esercizio del potere è spesso il medesimo, più segreto, più inafferrabile, sono cambiati soltanto gli strumenti della violenza. Non fanno più spettacolo, ma egualmente sottomettono l'uomo. Dicono che a Camporeale la mafia non esista più perché non ci sono più omicidi o altri episodi di violenza eclatanti. Il fatto è che gli uomini di questo paese muoiono egualmente di morte violenta, solo che i delitti vengono consumati lontano da queste case. Nelle statistiche, infatti, non figurano assassinii commessi in questi ultimi anni a Camporeale, eppure otto persone di Camporeale sono state egualmente uccise: chi a Palermo, chi ad Alcamo, chi in qualche altra parte della Sicilia. E i moventi di quei delitti, voglio dire le ragioni umane, le logiche mafiose, stavano probabilmente qui. Mai credere che un posto dove non succede niente sia un posto tranquillo: secondo me è proprio quello il luogo di cui ci si può fidare di meno. Ecco perché la gente non vuole parlare di Pasquale Almerico».
L'architetto ha una immensa barba nera, parlando se la tormenta con le dita, sembra invaso da una continua ansia di dire e spiegare. Ecco un uomo che ha le idee chiare. Forse ha paura anche lui e questo gli fa rabbia, non vorrebbe che gli altri lo capissero. Un'altra sensazione: che anche lui si senta solo. Continua: «D'altra parte si può dire che Camporeale è letteralmente nato tramite atti sociali che possono essere raffigurati come la preistoria del fenomeno mafioso. Come non considerare, infatti, atteggiamenti mafiosi i primi favoritismi che Giuseppe Beccadelli, fondatore del paese, fece durante la distribuzione delle proprie terre ai contadini? Chi sapeva dimostrarsi più fedele e devoto al nobile possidente, avrebbe avuto il campo migliore, il possedimento più grande, la via più facile. E lotte fratricide, tradimenti, sottomissioni servili diventarono così la regola fra i cafoni, pur di potersi aggiudicare la sopravvivenza. Più si godeva della fiducia del padrone, più ci si poteva ritenere al di sopra di ogni pericolo. Rispettati e temuti!». Parla di questi suoi antenati con un certo disprezzo; non può stimarli, non riesce a giustificarli, forse nemmeno ad amarli: «Voglio farti conoscere Maria Saladino, una donna strana, unica. Vedrai». Siamo arrivati a casa sua, l'architetto ha una madre mite e gentile che mi offre straordinari dolci di mandorla. Parliamo ancora del paese, dei suoi tentativi di crescita, dei giovani che cercano di smuovere l'atmosfera di piombo, che organizzano incontri culturali, manifestazioni teatrali, che cercano di dare almeno una ragione alla vita sperduta della lontanissima provincia, una ragione anche alla stessa disoccupazione intellettuale, in attesa che qualcosa accada. Ma chi è questa straordinaria donna che deve arrivare?
Calogero mi spiega: «Una specie di benefattrice del paese. E' riuscita persino a creare centri di assistenza per i bambini figli di detenuti o di prostitute. In paese molti la considerano un po' svitata per la sua irruenza e per il suo modo di fare sempre imprevedibile, ecco, rassomiglia a quel Pasquale Almerico, la stessa passione, la stessa intransigente caparbia. Ma è una donna eccezionale. Se però la trovi in un momento di rabbia, puoi scordarti di parlare con lei, non ti rivolgerà nemmeno la parola. E purtroppo questi suoi momenti sono frequenti».
Bussano alla porta, entra una piccola donna con un cappotto chiaro, un fazzoletto a fiori attorno al volto, un paio di occhiali molto spessi che le fanno due strani occhi duri e amari, quasi collerici. Scorgendola capisco subito cosa intendeva dire Calogero. A stento mi saluta; parla concitatamente con l'architetto di certi problemi di travatura (sta facendo costruire un istituto che dovrà accogliere non so quanti ragazzi in condizioni familiari non favorevoli) e fa per andarsene. Cerco di fare il sorriso più affabile, adescante: chiedo solo due minuti, solo qualche domanda, ma non mi fa nemmeno parlare, quasi mi aggredisce: «Guardi, ho mal di testa, non ho dormito, è una giornata storta, ho i problemi dell'istituto e non voglio parlare con lei». Più chiaro di così. Se ne va senza nemmeno voltarsi, I'architetto Calogero fa un sorriso ironico e addolorato, allarga le braccia come a dire: te lo avevo detto! Comincio a vagare per Camporeale per riprendere alcune foto degli angoli più suggestivi o caratteristici del paese, e mi vedo affiancare da una 126 bianca: Maria Saladino mi fa cenno di seguirla; il suo sorriso è stranamente amichevole e il suo gesto invitante.
Mi fa entrare in un grande cantiere con due edifici in costruzione: la struttura in mattoni è già definita e le ampie aperture delle finestre lasciano intravedere grandi spazi interni. Scende dalla macchina e mi viene incontro. «Vuoi che ti parli di Pasquale Almerico? Bene! E' morto tra le mie braccia».
La frase è pronunciata seccamente, quasi a voler stabilire subito, prima di ogni altra cosa, una sorta di gelosa, materna possessione del drammatico episodio. La guardo meglio, cerco di capire questo essere umano così incredibile in questo paese che sembra il fondo della terra. Ha un'età indefinibile fra i sessanta e i settanta, il viso coperto di una infinità di rughe, la bocca è larga e sottile, il naso dritto, gli occhi espressivi. Si torce continuamente Ie mani e di tanto in tanto tira fuori dalla tasca del cappottino un fazzoletto tutto appallottolato. Dalla scollatura del cappotto viene fuori un inatteso maglione a collo alto, giallo con i disegni jacquard neri. Le calze beige sono spesse, del tipo ortopedico, e le scarpe nere e minuscole. La guardo e la valuto, perdonate, come una donna può guardare e valutare un'altra donna. Continua:
«Io e Pasquale eravamo colleghi. Anch'io insegnavo come lui, e gli volevo molto bene, lo stimavo, andavamo d'accordo, lavoravamo spesso insieme. La cosa più straordinaria di lui era quell'incredibile amore che nutriva verso i bambini, gli scolari. Oltre ad essere sindaco di Camporeale era anche presidente dell'ECA, un ente assistenziale e infine si occupava personalmente della refezione scolastica».
Non occorre che io faccia alcuna altra domanda. Continua alternando voci di rabbia e di dolore come se la vicenda fosse accaduta solo il giorno avanti. «Mi ricordo che il giorno prima di essere ucciso aveva fatto avere a tutti gli alunni della scuola elementare una grossa fetta di torta. Era felice perché i ragazzi lo avevano applaudito. La sua vita era tutta nell'amore per quei bambini, nell'amore per il paese. Fantasticava, sperava, sognava.» Noto che lo chiama amorevolmente Pasqualino, e pronuncia la "s" del nome con un suono simile allo "sc" di sciarpa. Un po' come fanno i napoletani. Sta per qualche attimo in silenzio come per concentrarsi perfettamente nel ricordo, non sbagliare niente.
«Quella sera lo avevo incontrato per strada, gentile come sempre, ma quasi stravolto da una strana ansia. Io sapevo quello che gli stava accadendo e non osai fargli domande. Andai in casa di un'amica. Alle sette di sera sentimmo una serie interminabile di spari. A quel tempo, non essendoci il telefono, sparare in aria serviva per chiamare aiuto il più rapidamente possibile in casi di pericolo, poniamo un incendio o il crollo di una casa, o qualsiasi altro tipo di calamità. Per questo pensammo subito ad un incendio. Poi di colpo mancò la luce in tutto il paese e restammo nella impotenza tipica del buio improvviso per qualche minuto. D'un tratto qualcuno cominciò a bussare violentemente alla porta e una voce urlò che avevano ammazzato il professore Almerico. Mi precipitai sulla strada gridando di terrore...»
Improvvisamente la voce di questa donna apparentemente così forte e dura, si spezza. Sta tremando, piange, si strappa gli occhiali: «Corsi verso I'angolo della piazza. Avevano già caricato Pasqualino a bordo di una macchina perché avrebbero voluto condurlo all'ospedale di Palermo. Nessuno ancora capiva che quel povero corpo era stato ferito da centinaia di proiettili, che la sua vita correva via irreparabilmente da centinaia di ferite. Riuscii a infilare la testa nel finestrino: era pallidissimo e aveva sangue dappertutto Pasqualino, gli dissi, prega insieme a me: Gesù mio, misericordia, Gesù mio, misericordia. Lo udii ripetere quelle parole. Poi non disse più nulla. Gli afferrai la mano, probabilmente morì in quell'attimo. Se lo portarono via».
Resta immobile, con lo sguardo nel vuoto. Sorride: «Ed è stata quella sua morte, così crudele, così ingiusta, che mi ha portato a fare tutto quello che ho fatto. Non può, non deve esistere al mondo gente tanto feroce, non si può uccidere così un essere umano solo perché vuole lottare per gli altri esseri umani. Ora io sto lottando, mi illudo di lottare perché i bambini di questo paese crescano in un modo migliore, incapaci di violenza e crudeltà. Tutti questi istituti, queste organizzazioni a favore dei ragazzi poveri, dei piccoli delinquenti, di ragazzine in via di perdersi, che ho cercato di creare, sono tutte cose, ricchezze che ho trovato dentro di me dopo la morte di Pasqualino.» E' stata persino in America a cercare fondi per i suoi istituti: «In America ho incontrato padre Flanagan, fondatore della Casa dei ragazzi. Mi ha insegnato una cosa fondamentale. Mi ha detto che in fondo al cuore di ogni uomo c'è una parte di angelo e una parte di demonio; sono l'educazione e l'ambiente a sviluppare in noi o I'angelo o il demonio. Ed io voglio essere l'educazione e l'ambiente per questi ragazzi bisognosi d'aiuto. Scrivilo (il suo tono è quasi minaccioso) sono sicura che è proprio quello che Pasqualino voleva. La sua morte è stata per me una illuminazione».
La morte di Pasquale Almerico ha consentito l'ingresso trionfale del mafioso Vanni Sacco e dei suoi trecento complici nella DC avviata a diventare lo strapotente partito di potere, ma ha determinato anche queste sconosciute ribellioni nell'animo della gente semplice. Una semina sanguinosa c'è stata, qualcosa è accaduta e continua ad accadere.
Anche se la gente non dimentica che Vanni Sacco venne arrestato, rimase nell'ospedale della Feliciuzza di Palermo fino all'assoluzione per insufficienza di prove, e per anni la mafia divenne padrona del paese e quindi anche dell'animo del!a sua gente. Padrona forse anche adesso.
Io ho creduto, ho temuto di capirlo negli occhi della gente, quando ho pronunciato il nome di Pasquale Almerico. Chi era costui? Chi se ne ricorda? Un tipo testardo il quale non volle capire che un grande partito non può vivere solo di ideali, di rivoluzioni morali, di bellezza, ma ha soprattutto bisogno del potere. Almeno nella democrazia quale noi abbiamo credulo di realizzare nella nostra nazione.

Tiziana Pizzo

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