Di Loris Mazzetti
Per i grandi giornali nazionali e per i Tg anche tra i giornalisti uccisi dalle mafie ci sono quelli di serie A e di serie B, ad alcuni viene dato, giustamente, spazio ad ogni minima notizia, altri, ingiustamente, vengono ignorati anche quando il fatto è da prima pagina.
È il caso di Beppe Alfano, il giornalista, corrispondente della Sicilia di Catania, ucciso la sera dell’8 gennaio 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Alfano è un giornalista dalla schiena dritta, tosto, determinato, per lui la legge va sempre rispettata e lo Stato è lo Stato. Condanna il trasformismo di certi lavoratori dell’informazione che da cani da guardia della democrazia sono diventati cani da guardia del padrone. Per lui, che non volta le spalle ai fatti ma li insegue, la carriera non esiste, viene pagato 5 mila lire a pezzo (il tesserino dell’Ordine gli viene consegnato dopo la morte), per far vivere la famiglia fa il professore di Educazione tecnica. Il mestiere di giornalista lo conosce bene, lo sanno i lettori, purtroppo non solo loro. Scrive degliaffari economici della mafia nella zona, appalti e subappalti, commercio di agrumi, lo scandalo dell’Aias, un centro di assistenza per spastici, una loggia massonica deviata unita alla mafia, cita con nome e cognome: uomini d’affari, politici, amministratori.
Durante un’inchiesta scopre che la criminalità organizzata locale ha come riferimento Nitto Santapaola (pluri ergastolano per l’omicidio Fava e le stragi di Capaci e via D’Amelio), soprattutto scopre che il boss catanese si nasconde a Barcellona. Alfano immediatamente confida l’informazione al giudice Olindo Canali, sostituto procuratore al Tribunale della cittadina. Il magistrato non ritiene opportuno indagare e dopo poco tempo Alfano viene giustiziato con tre colpi di pistola. Canali compie il peggio durante l’indagine sull’omicidio “dimenticando”, per la seconda volta, le confidenze del giornalista.
Sonia Alfano, la figlia di Beppe, per conto della famiglia, insieme all’avvocato Fabio Repici, inseguendo la verità, lottando contro depistaggi, la macchina del fango che si è messa in moto immediatamente, stanno finalmente ottenendo giustizia, grazie alle intercettazioni telefoniche tra Olindo Canali e i colleghi che hanno tentato di proteggerlo. Il pm Federico Perrone Campano della Procura di Reggio Calabria ha notificato al magistrato, alla fine delle indagini preliminari, l’imputazione per “delitto di falsa testimonianza con l’aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso denominata Cosa Nostra”. Questa è una Notizia!
Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2011
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