Alle 7.55 del 21 Luglio 1979 Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, considerato all’estero uno dei poliziotti più bravi d’Italia, instancabile cacciatore di latitanti mafiosi, investigatore attento anche agli intrighi di alta finanza, per trovare una chiave di lettura a ciò che accadeva in quegli anni in Sicilia, uscì tranquillamente da casa senz’altra protezione che la sua pistola nella fondina.
Ogni giorno veniva a prenderlo un anziano Commissario a bordo di una giulietta. Ma quel giorno – era una splendida giornata di sole – Boris Giuliano uscì in anticipo.
Si fermò un attimo in portineria per consegnare la borsa con i soldi della pigione, percorse una quarantina di metri da solo, senza guardarsi alle spalle, diretto ad un bar poco distante. Un saluto al cassiere, un saluto al barista, un cenno del capo per un paio di avventori. Fece in tempo ad ordinare il suo ultimo caffè. Un killer solitario, a viso scoperto, pallido come un cencio, tremante, si affacciò sulla soglia del bar. Giuliano, ottimo tiratore, esperto in conflitti a fuoco, non fece in tempo a reagire. Cadde colpito al volto in un lago di sangue. Il killer si dileguò favorito dai complici.
Lo sceriffo – così i suoi collaboratori avevano soprannominato Boris Giuliano – forse fu ucciso per aver anticipato di un decennio tecniche di lavoro per quei tempi rivoluzionarie. Si esprimeva perfettamente anche in Inglese. Sapeva orientarsi ad occhi chiusi fra i vicoli del suk palermitano della Vucciria, e aveva alle spalle un lungo apprendistato nel quartiere cinese di Soho. Gran divoratore di libri di storia e libri gialli, aveva due baffoni alla tartara, la battuta pronta, tre figli ed una moglie che l’adoravano, ma anche una maledetta passione che lo bruciava dentro: quella del poliziotto che non vuole sbarcare il lunario scaldando la poltrona, ma indagando sui misteri della città in cui vive. Solo per questo a Palermo, città che al massimo i rappresentanti delle forze dell’ordine li tollera, Boris Giuliano partiva male.
Entrato in Polizia all’inizio degli anni ‘70 si era ritrovato – prima da capo della squadra omicidi poi da dirigente della squadra mobile – ad indagare proprio su Mauro De Mauro, Giuseppe Russo, Mario Francese e Michele Reina, mentre lo Stato non coglievano le motivazioni che spingevano uomini come Giuliano ad indagare sul serio, non si rendeva conto che quelli erano i suoi funzionari migliori, i più fedeli, che avrebbe dovuto preservare da ogni insidia.
Lo sceriffo sembrava non accorgersi di questa apatia che faceva da sfondo al suo lavoro individuale. Andava avanti e indietro da New York. A Palermo era in cotatto telefonico quotidiano con i colleghi d’oltreoceano, della DEA (Drug Enforcement Administration) o dell’FBI. Era di casa negli istituti di credito siciliani, avendo capito che gli assegni bancari sarebbero diventati le impronte digitali del futuro. Possedeva una dote rarissima in quegli anni: la capacità di connettere in grandi puzzle intuitivi i tasselli criminali apparentemente slegati fra loro. Una preziosa rete di informatori che lo stimavano e lo chiamavano confidenzialmente : “Dottò”. E anche una regola d’oro che spesso a Palermo può salvarti la pelle. Lui stesso la sintetizzava così ai suoi collaboratori: < Se venite a conoscenza di un segreto non tenetelo per voi. Scrivetelo, ditelo, telefonatelo, ma non diventatene i depositari>
Eppure i segreti di Palermo lo attiravano con la potenza di una calamita. <Peccato> diceva spesso <che indagando su certi delitti sbattiamo su una parete d’acciaio>. Si riferiva proprio a quei delitti che rimangono ancora oggi senza risposta, e per i quali non sono mai stati condannati nè esecutori nè mandanti. Ma per tanti portelloni che restavano sbarrati altri si socchiudevano, altri si spalancavano. La sua intuizione più felice fu che la Sicilia, proprio in quegli anni, stava assumendo un ruolo nevralgico nello scacchiere internazionale del traffico degli stupefacenti. Giuliano sospettava fortemente – anche se ancora non confortato dalle prove – che le raffinerie di eroina stavano per essere trasferite da Marsiglia e dalla Costa Azzurra proprio a Palermo. <Droga, droga> ripeteva enigmatico ai cronisti che gli rivolgevano domande su delitti che apparentemente sembravano incomprensibili, commessi quasi da marziani sanguinari ed invisibili.
Scavava, scavava, in mille direzioni. Avvertiva la presenza insidiosa d’un nemico feroce, che rompeva regole tradizionali, che eliminando investigatori e giornalisti alzava il tiro, mentre troppi elementi riconducevano con certezza al gigantesco traffico di stupefacenti.
Arrivò così l’alba dell’8 Luglio 1979, una tiepida Domenica sul lungomare di Romagnolo, Palermo. In tre auto civetta, dodici uomini decidono finalmente di entrare in azione. Boris è con loro, e loro sono i “suoi” uomini, i migliori delle diverse sezioni in cui si articola una squadra mobile.
Otto uomini silenziosissimi salgono su per una scala sbracciata, altri quattro controllano la portineria. Nessuno apre, nessuno risponde. Il mandato di perquisizione concede l’autorizzazione a sfondare la porta. Ancora una volta lo Sceriffo aveva indovinato.
Nel covo di Romagnolo infatti vennero rinvenuti documenti falsi, guardaroba ed effetti personali di Leoluca Bagarella, braccio destro di Luciano Liggio, il superlatitante del clan dei corleonesi che spesso aveva adoperato quel rifugio per i suoi travestimenti. Sebbene Giuliano non avesse trovato ancora le raffinerie, quel giorno potè stabilire un’equazione rigida fra il terribile clan dei corleonesi e la grande produzione di eroina in quegli anni.
Forse per lui il bilancio investigativo era ancora magro, ma per i suoi nemici aveva oltrepassato ogni misura…
Il feretro venne portato a spalla dai “suoi” uomini fino in Questura. Resero omaggio a Giuliano migliaia di cittadini semplici e tutti gli abitanti di via dei Biscottari, una stradina del popoloso quartiere di Ballarò, alle spalle della Questura centrale.
A Palermo in via Di Blasi una lapide ricorda il sacrificio d’un poliziotto onesto. Ma a Giuliano nessuno ha pensato di titolare una strada.
Al solo ricordo di questo mitico funzionario di Polizia, ancora oggi, luccicano gli occhi dei quei pochissimi collaboratori che sono rimasti in servizio.
Giuliano pagò con la vita per non essersi rassegnato alla favoletta della mafia buona. Per non essersi fermato sulla soglia sbarrata da tanti portelloni d’acciaio che custodivano segreti innominabili. Per aver capito che la mafia si trasforma approfittando di lungaggini burocratiche e distrazioni colpose. Per aver inaugurato un asse investigativo Palermo-States che ai trafficanti non poteva andare a genio.
Saverio Lodato, “Trent’anni di mafia – Storia di una guerra infinita”
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